LETTERA 188 COPERTINA

LETTERA 188 - MAGGIO-GIUGNO 2016

Editoriale:

COMPASSIONE COME STILE DI VITA

Autore:

Marcella e Sergio Gentile - Responsabili regione Nord Ovest A

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Il mondo in cui oggi ci troviamo a vivere si caratterizza, fra le altre cose, per 
l’incertezza del tempo presente e per la paura del tempo futuro. 
Incertezza e paura contribuiscono a mettere in crisi le nostre più profonde convinzioni 
e minano alla radice anche i rapporti che, quotidianamente, intratteniamo con il nostro 
prossimo. 
Circondandoci d’incertezza e di paura costruiamo inconsapevolmente una campana di 
vetro che ci isola dal nostro mondo e dal nostro prossimo che spesso percepiamo come 
portatore di minaccia; vengono a crearsi quindi fratture e incomprensioni che 
ostacolano la comunicazione e creano solitudine e sofferenza. 
Ci sentiamo spesso abbandonati, viandanti in un deserto sempre più arido e quindi 
cerchiamo e aneliamo consolazioni ai nostri smarrimenti e alle nostre solitudini. 
Abbiamo bisogno di una consolazione che alleggerisca le nostre spalle dal peso che ci 
sentiamo gravare addosso, che agisca come ventata di aria fresca permettendo di 
recuperare ossigeno indispensabile per i nostri polmoni anneriti dalla sofferenza sia 
fisica che morale, che liberi il nostro cuore riportandolo a funzionare come pompa 
vitale per il nostro essere uomini liberi e nuovi. 
Una consolazione che diventa atto concreto, testimonianza quotidiana, impegno 
necessario e solidarietà attiva per il nostro cammino di fede sull’esempio e 
sull’imitazione del buon samaritano. 
La parabola del buon samaritano è, secondo noi, la concretizzazione di una fede 
testimoniata attraverso gesti di vicinanza concreta. 
Il sacerdote e il levita non si lasciano coinvolgere, non si fermano forse perché troppo 
concentrati su loro stessi, timorosi di essere contaminati dall’impurità del dolore fisico 
ma soprattutto perché incapaci di rimanere accanto alla debolezza e alla solitudine di 
una persona colpita dal dolore. 
Fermarsi accanto a qualcuno vuol dire rimettere in discussione la propria 
organizzazione, vuol dire porsi delle domande, vuol dire chinarsi e ascoltare i lamenti 
che rischiano di disturbare la nostra quiete interiore. 
Ci si sarebbe aspettati che proprio loro (il sacerdote e il levita) soccorressero il povero 
malcapitato ma, invece, il gesto di accoglienza e di compassione viene esercitato dalla 
persona più umiliata e odiata a quei tempi cioè il Samaritano. 
Pensiamo che anche lui avesse i suoi programmi per la giornata, ma deve aver pensato 
che in quel momento le priorità erano altre: quell’uomo e i suoi problemi erano più 
importanti dei suoi programmi, delle barriere di culto, del suo tempo e degli affari che 
doveva realizzare in quel giorno. 
Il dolore, la sofferenza, la morte e la solitudine fanno paura, ci sentiamo spesso 
impotenti o inadeguati perché in noi convivono contemporaneamente il levita, il 
sacerdote e il samaritano; nella fatica di questa convivenza noi siamo chiamati a 
tracciare la nostra storia di uomini e donne compassionevoli. 
Per poterci avvicinare a chi soffre non solo fisicamente, ma anche moralmente, 
dobbiamo vincere le opposizioni che in noi frenano la compassione, cioè riuscire a dire 
no all’indifferenza di fronte ai problemi del nostro prossimo. 
Scrive S. Agostino: "Io non so come accada che, quando un membro soffre, il suo 
dolore divenga più leggero se le altre membra soffrono con lui. E l’alleviamento del 
dolore non deriva da una distribuzione comune dei medesimi mali, ma dalla 
consolazione che si trova nella carità degli altri" (Epist. 99,2). 
Etimologicamente la parola consolare deriva dal termine latino "consolari": con 
(insieme) e solari (confortare), quindi confortare uno che è solo nel suo dolore. 
Il dolore di qualsiasi tipo fa sperimentare la solitudine. 
Si soffre in prima persona innanzitutto, ma quanto bisogno c’è di sentirsi supportati, 
compresi, di sentire che c’è qualcuno che ci ama, che prova a mettersi nei nostri panni, 
che irrompe nella nostra solitudine con la sua vicinanza, con la sua compassione, che 
ci aiuta a portare il peso del dolore. 
Consolare e, a volte, semplicemente stare accanto con gesti di affetto sono momenti di 
profonda vicinanza che fanno bene non solo al sofferente ma anche e soprattutto a chi 
cerca di aiutare. 
Infatti il dolore degli altri, se ci si lascia coinvolgere, penetra in profondità e ci tocca il 
cuore, ci fa rinascere, ci fa rivedere le nostre certezze, ci aiuta a rileggere la nostra vita 
dando priorità alle cose che veramente contano. Ci costringe alla riflessione, ci aiuta a 
riconoscere la nostra e l’altrui precarietà, richiede dolcezza, pacatezza, calma, capacità 
di attendere. 
La compassione diventa quindi uno stile di vita, lontano dagli schemi sentimentali e a 
buon mercato dei benpensanti del nostro tempo e si concretizza in scelta, in 
responsabilità e in solidarietà viva. 
Scelta nel lasciarci interpellare avvicinandoci a chi ha bisogno. 
Responsabilità perché la vita degli altri non può passarci sulla testa, ma deve essere 
condivisa non solo nei momenti belli, ma anche e soprattutto in quelli pesanti, dolorosi, 
senza apparente senso. 
Solidarietà per farci "prossimo" verso le periferie della vita. 
Riteniamo a volte un rischio farci coinvolgere perché temiamo di non sapere dare 
risposte, di non essere all’altezza, perché non vogliamo entrare in crisi. 
Siamo assetati di serenità e di gioia, ma abbiamo sperimentato tutti però che il dolore 
prima o poi entra nella nostra vita. 
Anche Gesù ha sofferto fino a dare la vita per noi. 
Sulla strada verso il Calvario Simone di Cirene ha alleviato per un tratto di strada le 
fatiche di Gesù, portando la croce al suo posto. 
Questo è il nostro compito: portare la croce insieme a chi soffre, sostenendone il 
cammino, offrendo la vicinanza dell’intimità e della com-passione. 
Abituati a vivere, ormai, in una società schizofrenica in cui tutto deve essere bello e 
sano e in cui la soddisfazione immediata dei propri desideri è il comandamento unico 
e sacro su cui orientare la vita, non si sopporta di avere a che fare con la sofferenza e 
si vorrebbe che tutto si risolvesse subito. 
Spesso però non è così. 
Il dolore altrui ci insegna ad attendere, ci sposta da noi stessi e dalle nostre 
preoccupazioni per andare verso l’altro con tutta la comprensione, la dolcezza e la 
compartecipazione possibile. 
Riusciamo a esprimere questi atti verso gli altri soltanto se siamo profondamente 
consapevoli che prima di tutto siamo chiamati a viverli nella nostra prima comunità di 
appartenenza, che è la nostra famiglia e soprattutto all’interno della nostra coppia. 
Scegliere di amarsi confidando sempre nella presenza del Signore nella nostra vita. 
Responsabilmente ci accettiamo ogni giorno consapevoli dei limiti che vediamo prima 
soprattutto in noi stessi. 
Offrendoci un’amorevole e appassionata solidarietà camminiamo sulla via del 
matrimonio in due e gli ostacoli, come le gioie, devono essere condivisi pienamente. 
Sono importanti i gesti, le parole, ma lo è altrettanto il silenzio: a volte uno sguardo, 
un gesto silenzioso possono bastare ad esprimere ciò che le parole non riescono a dire. 
E non è forse questo ciò che si realizza e che viviamo, molto concretamente, nei nostri 
doveri di sedersi quando ci poniamo in ascolto e in attesa l’uno dell’altro e il Signore 
si china su di noi, per ascoltare e raccogliere il nostro anelito di serenità!? 
Non possiamo identificarci completamente con il dolore altrui, ma possiamo 
accoglierne un frammento ed è quanto basta per farci agire, per smuoverci dalla nostra 
tranquillità. 
Siamo certi che Dio unito allo Spirito Santo Paraclito siano i nostri consolatori. 
I discepoli di Emmaus erano sfiduciati, la loro vita sembrava non avere più senso, ma 
è proprio in quel momento che Gesù si avvicina a loro e colma la loro solitudine 
facendosi compagno di strada. 
Da lassù nessuno ci abbandona mai, quindi affidiamo le persone che hanno bisogno di 
conforto alla Trinità e, contemporaneamente, facciamo la nostra parte seguendo 
l’invito di Dio: “consolate, consolate il mio popolo” perché Lui ha bisogno di ognuno 
di noi per completare l’opera. 

                                                                                          Marcella e Sergio Gentile 
                                                                                               Equipe Italia 
                                                                          Coppia Responsabile Regione Nord Ovest A