"L'umiltà è la virtù più difficile da conquistare;
niente di più duro a morire del desiderio di pensar bene di se stessi...".
(Thomas Stearns Eliot - 1888–1965)
La nostra forza è determinata dal timore di Dio, principio della Sapienza. Non è la paura, è prima di tutto rispetto, riconoscimento della sua grandezza, fiducia nella sua giustizia. È timore filiale intriso di affetto, è un non voler rattristarlo col nostro comportamento sbagliato più che temerne il castigo. Frutto del Timore del Signore è la fortezza intesa come coerenza del nostro vivere ai principi della fede cristiana, sicuri che la grazia di Dio, allo stesso modo in cui si è sprigionata dal solo tocco del mantello di Cristo ed ha guarito l’emorroissa, corroborerà anche noi, rendendoci capaci di affrontare le difficoltà quotidiane con coraggio, senza paura, rifiutando il conformismo, la compiacenza alla moda corrente, l’adesione acritica alla posizione della maggioranza. “Non dubito, o miei cari fratelli, che nel vostro cuore sia ben radicato quel timore di Dio che vi permetterà di giungere a vera e solida fortezza. Comunemente si dice forte uno che non ha paura di nessuno: ma è una falsa fortezza quella che non pone in primo luogo il timore di Dio. Temendo si presta ascolto, prestando ascolto si ama e amando non si ha più timore: allora uno sarà veramente forte, forte non per durezza della sua superbia, ma per la sicurezza che viene dalla giustizia. Lo dice anche la Scrittura: Nel timore del Signore è la fiducia del forte". Dal discorso 348 di s. Agostino
ll timore di Dio nasce dall’ascolto. “Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole… allora comprenderai il timore del Signore” (Prv 2,1.5). Il timore del Signore, lungi dall’essere una condizione di infelicità, è al contrario una fonte di energia positiva per l’uomo retto: “Tu avrai una grande ricchezza se avrai il timore di Dio, se rifuggirai da ogni peccato e farai ciò che piace al Signore tuo Dio” (Tb 4,21);
Certo, è un andare controcorrente, l’uomo contemporaneo ancor più che nel passato quando Epicuro partendo dal presupposto che gli uomini avevano paura degli dei ha sviluppato una filosofia di liberazione, ha dichiarato con Nietzsche la morte di Dio, ritenendo illusorie le credenze religiose elaborate attraverso i millenni per dare un senso e un ordine rassicurante alla vita. L’ateismo diffuso, l’affermazione del sé, il successo e il potere sono le cifre del vivere del nostro tempo. Come Salomone chiediamo a Dio il dono della Sapienza, che ci dia la capacità di orientare le nostre scelte, di essere la nostra luce. Pino Stancari (nella crisi della Sapienza) riferisce che il detto sapienziale che risuona in molti scritti dell’AT: Il principio della Sapienza è il timore del Signore” (Prov. 1,7) può servire a illuminare tante cose. Vuol dire che la ricerca sapienziale si radica nel contesto della vita umana, in quanto questa è aperta al rapporto con il mistero. Con il salmo 39,5-7 meditiamo che è solo un soffio ogni uomo che vive: assurdità, enigma, fragilità, e continuamente in ricerca di ciò che c’è oltre il sole. Non si può vedere oltre il sole. C’è uno spazio dentro il quale l’uomo può comprendersi, crescere, illudersi, disincantarsi. Sotto il sole dice uno sguardo dall’alto (cfr. Qo5,1), dove tutti e tutto sono illuminati dal sole, quindi è «tutto» ciò che per noi è a disposizione, il mondo appunto, ma con il suo limite: è il tutto come luogo delle possibilità, delle scelte e delle condizioni.
"Fammi conoscere, Signore, la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni, e saprò quanto fragile io sono". Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni, è un nulla per te la durata della mia vita. Sì, è solo un soffio ogni uomo che vive. Sì, è come un’ombra l’uomo che passa”. A partire dalla considerazione della nostra finitezza come Agostino ricerchiamo le virtù : la virtù in questa vita consiste nell'amore di ciò che deve essere amato: sceglierlo, è la prudenza; non lasciarsene distogliere dalle difficoltà è la fortezza; né dalle seduzioni, è la temperanza; né dalla superbia, è la giustizia.» (Sant’Agostino). Il dono della fortezza perfeziona ed eleva la volontà, una qualità che già umanamente tutti possediamo come forza misteriosa quando si vuole raggiungere un qualsiasi obiettivo che non sia banale, essa diventa capacità spirituale di agire, decidere, assumersi responsabilità, perseverare nella fedeltà. Poi richiede sforzo; in fondo, per ogni obiettivo prezioso è indispensabile lo sforzo, perché abbiamo in noi troppe inclinazioni alla facilità, all’accomodamento; guai ad abbandonarci a questa deriva facile: l’unico modo è resistere a noi stessi.
La certezza di essere amati incondizionatamente dal Signore ci induce ad abbandonarci a Lui senza riserve, nel compiere con gioia le nostre piccole cose. La gioia è segno di una persona generosa e dimentica di sé, che nasconde una vita di sacrificio, per unirsi a Dio con fervore e generosità, diceva Madre Teresa.
La fortezza si lega all’umiltà, "una condizione difficilissima da vivere” (E. Bianchi), ma “solo accettando le umiliazioni che ci vengono da Dio, da noi stessi e dagli altri potremo scoprire la nostra radicale povertà e così accedere all’umiltà, quella vera", in una negazione dell’orgoglio, in un continuo percorso di conversione a Cristo, che ci chiama a testimoniare la gioia che viene da Lui nel porsi a servizio. Con il gesto della lavanda dei piedi, Gesù, ha indicato a noi, suoi discepoli, la strada da seguire, fondando una comunità nella quale al dominio si sostituisce il servizio reciproco. Servire diventa così la dimensione caratterizzante della sequela di Gesù, che non si configura però come un rapporto di sottomissione e asservimento, come è quello che lega lo schiavo al padrone, bensì si presenta nei termini di una relazione fondata sull’amore, diakonia la si definisce, infatti il diakonos svolge il suo servizio in un atteggiamento di responsabilità e dignità e per questo può benissimo essere chiamato ministro. “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa cosa fa il suo padrone.
Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal padre ve l’ho fatto conoscere” (Gv 15,15)
È a questa diakonìa, nella quale si realizza la funzione regale che deriva ad ogni cristiano dal Battesimo, che siamo chiamati sia i ministri ordinati che noi laici. È la missione della “consacrazione del mondo” che compete a noi laici, proprio per la nostra condizione di membri della Chiesa e cittadini del mondo, missione che la Lumen Gentium definisce così: “rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare il sale della terra se non per mezzo loro” (LG 33) e, nello stesso tempo, sensibilizzare la comunità cristiana alle esigenze e al linguaggio degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Si tratta, dunque, di recuperare il senso sacro delle stesse attività profane e il valore ecclesiale - non ecclesiastico - della diakonia laicale nella vita quotidiana, di una missione specificamente cristiana, che si concretizza nelle funzioni di padre, di madre, di lavoratore, di cittadino, attraverso cui il Regno di Dio possa realizzarsi progressivamente nella storia degli uomini, “idea che sembra ancora estranea alla maggioranza dei credenti.” (G. Savagnone, La responsabilità dei laici all’interno della comunità ecclesiale). Si tratta di imparare ad uscire da noi stessi per andare incontro agli altri, verso le periferie dell’esistenza, occorre muoverci noi per primi verso i nostri fratelli e le nostre sorelle, soprattutto quelli più lontani, quelli che sono dimenticati, quelli che hanno più bisogno di comprensione, di consolazione, di aiuto. C’è tanto bisogno di portare la presenza viva di Gesù misericordioso e ricco di amore! (Papa Francesco nella prima udienza generale a S Pietro il 27 marzo).
P.S. Quando leggerete queste pagine, sarà passato il torrido caldo che ammanta la nostra terra e saremo già alla fine del nostro servizio. Già, alla fine di un servizio che ci sembrava insormontabile, ma che è volato via lasciando i nostri cuori pieni di gratitudine al Signore, che di fronte al nostro turbamento per la chiamata al servizio, come a Paolo ci ha detto” ti basta la mia grazia”, e come Paolo pensando che è nella debolezza che si è forti, ci siamo messi a Sua disposizione. Infine, parafrasando Madre Teresa che Lui faccia di noi qualsiasi cosa vuole, come vuole, per quanto tempo vorrà. Se la nostra oscurità è luce per qualche anima, ma anche se non servirà a niente e a nessuno, noi siamo perfettamente felici di essere il fiore di campo di Dio.
Lucia e Nino Taormina
Equipe Italia
Responsabili Regione Sud Ovest