LA SALUTE DELLE DONNE E I RISCHI DELLA Ru486
La recente decisione del ministero della Salute italiano di estendere la possibilità di assumere la pillola abortiva Ru486 da 7 a 9 settimane con l’esclusione del ricovero obbligatorio per le donne che la richiedono ci interroga profondamente sugli aspetti psico-sociali e medico-scientifici di questa scelta. [. . .]
I tre aggettivi che più sono stati usati per giustificare l’uso della pillola abortiva sono stati: semplice, indolore, sicuro. Valutiamone la veridicità.
La semplicità dell’assunzione di una pillola, senza il successivo controllo medico che possa monitorare l’evento abortivo e le eventuali complicanze che ne potrebbero derivare, è quanto di più banalizzante e, nel contempo, quanto di più devastante sul piano psicologico per la relazione che si stabilisce fin da subito tra madre e figlio. [. . .]
L’aborto farmacologico cerca di silenziare la verità scientifica di questa relazione biologica, immunologica, ormonale e psicodinamica, che sin dal primo istante del concepimento, si crea tra l’embrione, ossia il figlio, e sua madre: per certa scienza, ormai datata e inconsapevole del “protagonismo biologico” dell’embrione, sembra che questa realtà sia irrilevante. Oggi però sappiamo, per esempio, che già dalla 4ª settimana di gestazione l’embrione comincia a sviluppare tutta una serie di pattern sul piano della sensorialità, in termini di gusto e olfatto, attraverso la relazione con la madre, così come sul piano degli scambi cellulari, inviando alla donna cellule staminali che, attraversando la placenta, per via ematica, raggiungono zone patologiche materne per circoscriverle e guarirle: il feto, infatti, in tal senso, è “medico della madre”.
Da parte sua, la madre sviluppa una forte ed intima percezione della presenza del figlio, sostenendolo con ossigeno e nutrizionali: questa relazione reciproca si chiama “simbiosi materno-fetale” ed è un meraviglioso mistero che ormai la scienza ha potuto conoscere e approfondire.
Se tutto ciò è vero, la scelta di abortire con la Ru486 non può essere indolore: sul piano fisico, essa comporta contrazioni dolorosissime; sul piano psichico genera un’iper-responsabilizzazione della donna, perché è lei che deve assumere la pillola, è lei che deve farsi attrice, protagonista e spettatrice dell’agonia del proprio figlio e dei fenomeni emorragici che potranno verificarsi per un periodo che può arrivare fino a due settimane e in un luogo qualsiasi, senza preavviso, esponendo la donna — nel 56 per cento dei casi — all’esperienza devastante di vedere l’embrione espulso dal proprio corpo con tutto il sacchetto embrionale («British Medical Journal», 332, 1235, 2006).
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È doloroso constatare come sul piano psico-sociale, dinanzi alla cultura dello “scarto”, siamo in presenza di una sclerocardia così grande e di un silenzio passivo, che sembra renderci tutti incapaci di agire di fronte agli attacchi sempre più violenti contro la vita debole e fragile di tanti piccoli innocenti.
All’appello, infatti, risultano tre grandi assenti. In primo luogo, una scienza onesta e giusta, che non ponga gli interessi economici al di sopra del rispetto della dignità della persona umana (la madre e il figlio), abiurando alla sua mission, che è quella di produrre evidenze scientifiche in grado di garantire la tutela della vita e la salute delle persone, soprattutto se fragili e indifese. In secondo luogo, siamo ancora lontani da un’autentica “civiltà della vita e dell’amore”, capace di accogliere in maniera capillare la vita nascente e di sostenere ogni donna nel cui grembo si annuncia un figlio, senza esporla ai rischi di una pratica violenta e pericolosa per la sua salute. E, infine, manca l’uso di un linguaggio veritiero, che con coraggio chiami “figlio” colui che viene visto come una minaccia da eliminare.
Se almeno ricominciassimo rimettendo le parole al loro posto e chiamando con il loro nome questi piccoli che il Signore affida alle cure delle loro mamme, forse potremmo diventare consapevoli del fatto che non siamo i padroni onnipotenti della vita, perché tutti siamo figli. E quelli che stanno nel grembo delle donne sono i nostri fratelli più piccoli, i fratelli che il Padre ci ha affidato, perché li ha amati e desiderati, chiedendo anche a noi di accoglierli e amarli.