CORONAVIRUS, QUELLA INFINITA VOGLIA DI NORMALITA' E L'ILLUSIONE DI ESSERE INVINCIBILI

La pandemia ci ha costretto a dire che non dominiamo ogni cosa e che siamo fragili. Questo senso di finitudine e povertà non venga soffocato: è l’unica possibilità che da questo dramma esca un’umanità migliore.

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In questa pretesa di sapere e di dominare la realtà si annida, in verità, una delle illusioni più profonde da cui è affetta la nostra cultura: una certa onnipotenza, la mancanza di limiti, un certo senso di dominio su tutto quanto accade e la sensazione che non esista nulla – davvero nulla! – che possa sfuggire al nostro controllo, alla nostra programmazione, alla nostra razionalità dominante. Un’illusione che un modo perverso di concepire e vivere lo sviluppo scientifico e tecnico non fa che accrescere.
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Siamo costretti a dire che non sappiamo tutto, che non dominiamo ogni cosa, che siamo finiti, che siamo persino fragili e vulnerabili. Nel linguaggio cristiano abbiamo un termine per esprimere tutto questo: siamo delle creature; e, perciò, non ci possediamo, non è in noi la sorgente della vita che viviamo.
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Ma non cambierebbe tutto se solo sapessimo guardare a ciò che ci sta accadendo, spostando l’asse di qualche centimetro appena?
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siamo degli esseri finiti che non si sono ancora assuefatti alla disfatta della morte; siamo dei viventi a tempo, per i quali i giorni non saranno mai sufficienti; 
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Non farlo è privarci, come Chiesa, di qualcosa che ci appartiene e di un compito profetico all’interno delle nostre società occidentali, troppo inclini all’illusione che tutto sia sotto il nostro controllo, che tutto sia semplicemente in nostro potere. Farlo è aiutarci a vedere quel che da altre parti del mondo è pane quotidiano, perché non ci si può permettere, là, l’illusione dell'onnipotenza. Un teologo di quelle parti, il sudamericano Jon Sobrino, dice che i poveri sono coloro per i quali sopravvivere non è scontato. Quello che ci accade in queste settimane sta rivelando che tutti, occidentali o meno, siamo allora semplicemente poveri o, più radicalmente, che siamo solo degli uomini, non dèi.

È questa una sapienza che come cristiani dovremmo riapprendere da quanto stiamo vivendo, rendendola disponibile per tutti. Fare in modo che questo senso di finitudine e povertà non venga velocemente soffocato dovrebbe essere una nostra vera priorità: perché è parte dell’annuncio evangelico; e perché è l’unica possibilità che da questo dramma esca davvero un’umanità migliore.


Roberto Repole
Direttore della Facoltà Teologica di Torino




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